Per capire quanto effettivamente sia importante disporre anche nel nostro Paese di una procedura per la tutela collettiva di soggetti danneggiati dalle azioni scorrette (class Action), basta leggere gli ultimi fatti di cronaca con le scandalose dichiarazioni al Die Welt rilasciate dall’amministratore delegato della Volkswagen, Mathias Mueller, secondo cui il colosso tedesco dell’automotive, a seguito del “dieselgate”, non risarcirà i clienti europei con compensazioni assimilabili a quelle garantite invece negli Stati Uniti (dove è stato siglato un accordo da 14,7 miliardi di dollari). Questa è la prova che l’Italia e in generale l’Europa sono “cittadini di serie B” e pagano lo scotto di non poter ricorrere ad una procedura di class action con danno punitivo.
A differenza di quanto accaduto negli Usa, le istituzioni italiane ed europee sono rimasti immobili: nessuna pressione è stata fatta nei confronti dell’Amministratore delegato di Volkswagen Group Italia, Massimo Nordio, nonostante più volte l’Unione Nazionale Consumatori abbia chiesto al Governo di concordare un equo risarcimento anche per gli italiani. Più volte l’UNC ha invitato il Presidente del Consiglio a concludere al più presto le famose verifiche promesse dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per accertare se quanto rilevato dall’autorità di omologazione tedesca sia compatibile con i parametri di legge e se le prestazioni siano quelle promesse al momento della vendita.
La realtà è che l’azione di classe vigente oggi in Italia e disciplinata dall’art. 140bis del codice del consumo, dopo cinque anni dalla sua entrata in vigore, ha evidenziato l’inadeguatezza del nostro meccanismo di tutela collettiva risarcitoria. Il ridotto numero di azioni promosse, i tempi e le insidie presenti nella valutazione di ammissibilità, l’insignificante livello delle adesioni alle azioni dichiarate inammissibili impongono di riconsiderare la disciplina dell’azione di classe. Motivo per cui l’Unione Nazionale Consumatori ha partecipato alla stesura di un nuovo disegno di legge presentato e votato all’unanimità alla Camera dei deputati il 3 giugno 2015 e oggi, purtroppo, ancora fermo in Commissione Giustizia al Senato. La lentezza dell’iter parlamentare e l’inadeguatezza della legge vigente e la sua difficile applicazione non fanno altro che aumentare i danni ai consumatori.
Tra gli esempi fallimentari della tutela collettiva la cronaca recente ci parla dell’azione di Altroconsumo nei confronti di Banca Intesa SanPaolo. L’associazione dei consumatori nel 2013 ha proposto una azione collettiva a quei correntisti di Intesa SanPaolo andati in rosso sul loro conto corrente, anche solo per qualche giorno, che si erano visti addebitare oltre agli interessi passivi anche una commissione detta CSC (Commissione di Scoperto di Conto) giudicata illegittima visto che la banca l’aveva introdotta in sostituzione della commissione di massimo scoperto che è stata abolita per legge nel 2009.
Altroconsumo con l’azione legale di gruppo ha chiesto alla banca di restituire tutti i soldi ai correntisti, la Corte d’Appello di Torino le ha dato ragione, ma 104 correntisti di 110 aderenti all’azione collettiva sono stati esclusi dal risarcimento per il mancato rispetto di un cavillo burocratico. Quindi solo 6 correntisti su 110 hanno ricevuto il rimborso. E questo fatto spiega la portata simbolica di questi fallimenti: a cosa serve aderire a simili azione se non conducono ad un alcun risultato completo.
Da qui il nostro appello al legislatore affinché interpreti in maniera più “snella” l’istituto della class action.
Autore: Rebecca Manacorda
Data: 6 luglio 2016
Il fallimento della class action
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