Oggi online possiamo comprare una maglietta a 2 o 3 euro e abiti da sera a 15 euro, soprattutto sui siti di famosi colossi cinesi, ma la tendenza della moda a basso prezzo inizia con i grandi marchi che oggi affollano le principali vie dello shopping delle nostre città e le gallerie dei centri commerciali. Si chiama fast fashion, moda veloce.
Che cos’è la fast fashion?
Produzione continua e di massa, in tempi brevissimi, con materiali di scarsa qualità e a prezzi molto bassi.
Un tempo le case di moda proponevano due collezioni all’anno. Oggi i brand di fast fashion sono in grado di produrre milioni di capi per un pubblico globale, riuscendo a tenere i prezzi bassi perché si avvalgono di manodopera a bassissimo costo, soprattutto nei paesi del Sud Est asiatico, e di materiali di qualità molto bassa.
Grandi brand prima, che hanno cominciato a creare collezioni continue, di tendenza e alla portata di tutti, e le piattaforme di shopping online asiatiche poi, hanno letteralmente rivoluzionato la moda.
Così la moda è diventata democratica.
Ma la moda a prezzi stracciati ha costi altissimi, dal punto di vista sociale e ambientale. Se noi paghiamo così poco per un abito, chi paga davvero per la fast fashion?
Paga l’ambiente
La moda a basso costo la paga prima di tutto l’ambiente. È insostenibile.
Per tenere i prezzi bassi le aziende del fast fashion usano tessuti di scarsissima qualità e producono abiti progettati per rovinarsi in pochissimo tempo. Contro ogni principio di riciclo, riuso ed economia circolare.
I capi vengono sottoposti a vari processi come tintura e finitura, che hanno un impatto devastante sugli ecosistemi e sulla salute di esseri umani e animali, perché gli scarti e i residui chimici delle tinture finiscono nelle falde acquifere. Lo facciamo anche noi senza saperlo: quando laviamo i nostri capi sintetici in lavatrice, rilasciano in acqua particelle di microplastiche che finiscono nella catena alimentare e si accumulano sul fondo degli oceani.
La fast fashion è insostenibile anche per l’uso smodato delle risorse dei territori. Pensate che per produrre una sola t-shirt servono 2.700 litri di acqua, il fabbisogno di una persona per 2 anni e mezzo. Per un paio di jeans se ne consumano circa 11mila litri.
La fast fashion inquina, quindi. Ma non solo quando i capi vengono prodotti. Quando ordiniamo una maglietta o un paio di pantaloni, questi devono fare migliaia di km per arrivare alla nostra porta, in aereo o nei container stipati sulle navi, scaricando nell’atmosfera centinaia di migliaia di tonnellate di CO2.
Programmati per essere rifiuti
La scarsa qualità dei materiali con cui le nostre magliette da pochi euro vengono fabbricate, poliestere, acrilico e poliammide soprattutto, fanno sì che queste abbiano un ciclo di vita brevissimo. Gli abiti che acquistiamo sono destinati ad essere sostituiti molto più velocemente, anche perché il prezzo basso ci consente di comprarne quando ne abbiamo bisogno.
Le nostre magliette diventano in poco tempo rifiuti. Tonnellate di rifiuti tessili, sintetici e non biodegradabili, che restano ammassati nelle discariche dei paesi più poveri del mondo per decenni, dove contaminano il terreno oppure bruciano, rilasciando sostanze tossiche nell’ambiente.
Secondo Greenpeace ogni anno buttiamo via, solo in Europa, 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature. Circa 12 chili a persona!
Pagano le persone
Per tenere i prezzi bassi, i grandi marchi di fast fashion producono i loro capi in Paesi molto poveri, dove la manodopera ha costi bassissimi, come in Pakistan, India, Bangladesh o Cambogia.
In condizioni di lavoro pessime e pericolose, gli operai che cuciono gli abiti che poi arrivano da noi lavorano tantissime ore al giorno tra sostanze chimiche dannose, con paghe misere, stipati in edifici fatiscenti e pericolosi, senza il rispetto dei più basilari diritti.