Il caso Tari gonfiata
Il caso è scoppiato a seguito di un’interrogazione parlamentare, che ha svelato come un errore nel computo della quota variabile del tributo abbia fatto lievitare a dismisura il prelievo, a spese di milioni di famiglie. La Tari è composta da una parte fissa, legata ai metri quadri dell’immobile, e da una quota variabile, rapportata al numero degli occupanti. In particolare, nell’interrogazione è stato chiesto se la quota variabile dovesse essere calcolata una sola volta anche nel caso in cui la superficie di riferimento dell’utenza domestica comprendesse quella delle pertinenze dell’abitazione, poiché era invece emerso che molti Comuni avevano computato la quota variabile sia in relazione all’abitazione che a box e cantine. Così facendo, era stata determinata una tassa notevolmente più elevata rispetto a quella che sarebbe risultata considerando la quota variabile una volta sola rispetto alla superficie totale. Il Mef ha chiarito, attraverso una circolare esplicativa, che la quota variabile della Tari va applicata una sola volta in relazione alla superficie totale dell’utenza domestica, e che “un diverso modus operandi da parte dei Comuni non troverebbe alcun supporto normativo, dal momento che condurrebbe a sommare tante volte la quota variabile quante sono le pertinenze, moltiplicando immotivatamente il numero degli occupanti dell’utenza domestica”.Chi può richiedere il rimborso
La stessa circolare ministeriale precisa che “laddove il contribuente riscontri un errato computo della parte variabile effettuato dal comune o dal soggetto gestore del servizio rifiuti, lo stesso può richiedere il rimborso del relativo importo, solo relativamente alle annualità a partire dal 2014, anno in cui la TARI è stata istituita. Non è possibile, quindi, chiedere il rimborso relativamente alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), governata da regole diverse da quelle della TARI, che non prevedevano, tranne in casi isolati, la ripartizione della stessa in quota fissa e variabile. Né si può procedere alla richiesta di rimborso laddove i comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico, hanno introdotto in luogo della TARI, una tariffa avente natura corrispettiva, in applicazione del comma 668 dell’art. 1 della citata legge n. 147 del 2013”. Secondo il Ministero, si tratterebbe di una “istanza di rimborso in parola”, da richiedere entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento effettuato. La richiesta deve contenere tutti i dati necessari a identificare il contribuente, l’importo versato e quello di cui si chiede il rimborso nonché i dati identificativi della pertinenza che è stata computata erroneamente nel calcolo della TARI.La nostra proposta
Ma come al solito, così facendo si finisce per penalizzare le famiglie e i contribuenti italiani, che per un errore dei Comuni si trovano a dover presentare loro stessi istanza di rimborso. Non sarebbe più corretto che fossero i Comuni che sono in torto a procedere a un rimborso automatico delle somme illecitamente richieste? È evidente, pertanto, che la Tari gonfiata va restituita direttamente dai Comuni, senza bisogno che il contribuente sia costretto a chiedere il rimborso o a procedere a complicatissimi calcoli per calcolare il giusto importo della Tari. Anche perché molti avvisi di pagamento dei Comuni non specificano con esattezza la ripartizione della quota variabile in relazione alle pertinenze, rendendo ancor più difficile la verifica. Una ragione in più perché siano i Comuni stessi, con un provvedimento di autotutela, a rifare i calcoli e a restituire spontaneamente i soldi indebitamente percepiti. Autore: Rocco BellantoneData: 29 novembre 2017