L’irruzione del nuovo Coronavirus (agente della Covid-19) nel nostro Paese, le drastiche misure intraprese dal nostro Governo, la martellante attività mediatica che vede intervenire improponibili esperti su un argomento obbiettivamente complesso quale è la virologia, hanno di fatto modificato le nostre abitudini.
Si spera che questo periodo non si prolunghi troppo, ma nel frattempo ci troviamo immersi nella paura che ci spinge a compiere azioni anche irrazionali rispetto ai consumi alimentari, con ripercussioni che possono essere anche pesanti sull’intero settore produttivo.
La limitazione dei movimenti ha portato un effetto diretto sulla riduzione dei consumi nella ristorazione collettiva: le misure restrittive adottate per evitare assembramenti (nonché la mancanza di turisti) ha bloccato l’attività di molti esercizi quali ristoranti, fast food, bar, rosticcerie, mense, ecc. che assorbivano una non indifferente percentuale delle produzioni alimentari.
Il tipo di alimenti serviti dai luoghi di ristorazione collettiva seguono canali di produzione e di distribuzione che non sempre coincidono quelli utilizzati dai singoli cittadini per i consumi domestici. Le grandi catene di ristorazione, ma anche molti ristoranti, si approvvigionano da grossisti che operano su grandi numeri. Per questi operatori è ovviamente calato il volume degli affari che si è riverberato a monte della catena.
Molte tipologie di alimenti sono infatti prodotti esclusivamente per la ristorazione collettiva ed è difficile riconvertirli per la vendita al dettaglio. Questi alimenti si possono conservare in attesa di tempi migliori, ma i magazzini sono pieni e non è possibile accettare altre merci.
Un caso esemplare è quello degli hamburger destinati ai fast food. Gli strombazzanti messaggi pubblicitari ci raccontano che si tratta di carne proveniente dagli allevamenti italiani, non si dice però che provengono in gran parte dagli allevamenti di bovine da latte. Si tratta di animali a “fine carriera” la cui carne non è molto apprezzata dai consumatori per l’abbondante “marezzatura” (ovvero le infiltrazioni di grasso visibili nella carne). In realtà si tratta di un pregio perché il grasso racchiude le essenze aromatiche presenti nei foraggi che gli animali mangiano e che sono sprigionati con la cottura. Quando questa carne è tritata per farne degli hamburger la “marezzatura” non si apprezza e inconsapevolmente si mangia della ottima carne.
La chiusura dei fast food ha fermato il flusso di queste carni dagli stabilimenti di macellazione e trasformazione; di conseguenza gli animali non possono essere macellati e rimangono nelle stalle dove debbono essere alimentati senza praticamente produrre latte, con grossi danni per gli allevatori che hanno difficoltà anche a trovare posto per introdurre nuove manze.
Altrettanto complicata è la situazione del latte. Quello che troviamo fresco in commercio è praticamente tutto di produzione nazionale: le norme vigenti prevedono infatti che il latte debba essere lavorato entro le 48 ore dalla mungitura; per ragioni logistiche diviene quindi difficile poter utilizzare latte di importazione.
Il latte nazionale proviene da stalle indenni ovvero animali perfettamente sani, il che assicura l’assenza di agenti patogeni. Viene poi sottoposto a trattamenti termici che assicurano l’eliminazione di eventuali microrganismi patogeni; nello stesso tempo consentono la sopravvivenza dei microrganismi con attività probiotica, lasciando inalterate le caratteristiche nutrizionali e organolettiche.
Il latte a lunga conservazione è invece in gran parte di importazione. Le sue caratteristiche organolettiche sono differenti da quello fresco; è infatti sottoposto a drastici trattamenti termici che eliminano tutti i microrganismi, ma che possono distruggere in modo più o meno ampio alcuni componenti nutrizionali come alcune vitamine. Inoltre assume un sapore di “cotto” anche per via della parziale caramellizzazione del lattosio.
Tra i due tipi di latte non ci sono molte differenze nel valore nutrizionale, ma quello fresco ha una scadenza molto più breve rispetto a quello a lunga conservazione, e un prezzo più elevato.
In questo periodo di difficoltà anche a fare la spesa, i cittadini preferiscono quello a lunga conservazione; la conseguenza è che le Centrali del latte nazionali trovano difficoltà a collocare il loro prodotti freschi. Se la crisi dettata dal coronavirus dovesse perdurare ancora a lungo si corre il rischio di una riduzione dei ritiri, e magari – come peraltro qualcuno ha già provato a fare a scopo speculativo – anche una caduta dei prezzi del latte crudo, sebbene le rilevazioni indichino un aumento degli acquisti di prodotti lattiero-caseari.
Insomma, gli allevamenti bovini, da latte e da carne, sembrano essere gli anelli deboli della filiera alimentare in questo periodo di emergenza. Forse, invece che sterili proclami di difesa del “made in Italy” con insistenti richieste di dichiarazione di indicare l’origine del latte nei formaggi oppure tentativi di blocco delle autocisterne, sarebbe utile prendere altre iniziative. Alcuni allevatori si sono organizzati per potenziare la trasformazione del latte “eccedente” in formaggi o in polvere, ma alle volte i ricavi non sono sufficienti a coprire le spese.
Non è certo facile cambiare le abitudini alimentari dei cittadini, ma è importante fare conoscere e promuovere il consumo anche degli alimenti che non possono entrare nelle loro solite catene distributive, come la carne delle vacche di fine carriera, un alimento interamente nazionale e nutrizionalmente adeguato.
Per quanto riguarda il latte, deve essere fermissimo il controllo delle importazioni, che è stato visto aumentare soprattutto per quanto riguarda latte destinato alla caseificazione, a scapito di quello nazionale, sottoposto anche ai già detti tentativi di ridurne il prezzo con la scusa della sovrapproduzione.
Non è accettabile che i nostri prodotti lattiero caseari, tra i migliori al mondo, debbano essere le cenerentole.
Fonte: Settimana Veterinaria