Una volta per andare a fare la spesa e per poi mangiare quello che avevamo acquistato, seguivamo quello che ci suggerivano i nostri sensi. Sicuramente la vista per apprezzare i colori e le loro sfumature, il tatto per apprezzare la consistenza del cibo, l’olfatto fondamentale per stabilire lo stato di conservazione e infine il gusto per apprezzare il sapore al momento del consumo. L’unico senso poco utile è l’udito che però utilizzavamo per sentire gli imbonitori soprattutto nei mercati.
I giapponesi ci hanno insegnato ad apprezzare l’umami, scoperto all’inizio del ‘900 dallo scienziato Ikeda; si tratta di sapore dovuto alla presenza di un amminoacido (acido glutammico) presente naturalmente in alcuni alimenti (es. parmigiano) o aggiunto come additivo (es. dadi per brodo).
Forse eravamo ingenui, ma sicuramente sereni e non sospettavamo minimamente le insidie che si celano nei nostri alimenti.
Tutti sapevamo che lo zucchero era micidiale per le persone ammalate di diabete, che i grassi dovevano essere consumati con parsimonia, che era bene mangiare poco salato, che alcune persone dovevano evitare di consumare le fave.
Erano i tempi in cui consumavamo il pane in abbondanza, non c’era l’inflazione degli chef, chi era vegetariano o vegano non andava strombazzandolo in giro cercando di fare adepti. In modo del tutto incosciente mangiavamo salumi e formaggi tipici privi di etichette e forse senza saperlo mangiavamo cibi “biologici” senza doverli pagare un occhio della testa.
A scuoterci da questa “beata” ignoranza ci ha pensato l’Unione Europea che nel 2011 ha emanato il Regolamento 1169 che ha definito come devono essere etichettati gli alimenti per informare correttamente i cittadini.
Nel frattempo il numero dei nutrizionisti si è dilatato a dismisura conquistando spazi inimmaginabili nei media e spesso, insieme ai cuochi, hanno cominciato a darci delle informazioni più o meno (molto spesso meno) corrette che hanno provocato turbamenti e preoccupazioni di cui avremmo potuto fare a meno. Senza entrare nei dettagli delle varie sciocchezze che hanno ammorbato la nostra vita, ricordiamo che nel frattempo l’industria alimentare e il mondo della distribuzione si sono adattate alla situazione cercando di condizionare le nostre scelte alimentari. Utilizzando i tanti mezzi di comunicazione ci bombardano quotidianamente di messaggi per spingerci a consumare quanto più possibile; ovviamente lo fanno con una concorrenza spietata tra loro. Ecco quindi i “claims” più o meno veritieri, l’invasione del “senza”, dei “con” ecc. che vivacizzano le confezioni dei nostri alimenti e che fanno sorgere fasulle certezze e terribili fantasmi del tutto inaspettati
Questo però sembra non bastare ed ecco che arriva in soccorso la comunicazione digitale che mette a nostra disposizione strumenti informativi sempre più sofisticati.
Navigando in internet, con un po’ di pazienza, possiamo scoprire come sono fatti i nostri alimenti, il loro valore nutrizionale, il costo, ogni sorta di proprietà benefica, da dove arrivano le materie prime.
Indagando a fondo scopriremo che l’acqua è diuretica, che i grassi fanno ingrassare e che i cibi con pochi nutrienti fanno dimagrire.
Per migliorare la nostra “cultura” alimentare e soprattutto per scegliere meglio sono finalmente arrivate le “app” che sembra siano molto apprezzate.
Ce ne sono di vari tipi che possiamo consultare comodamente a casa prima di andare a fare la spesa per conoscere in anticipo gli alimenti da acquistare e, una volta arrivati nel negozio, andare a colpo sicuro. Ci sono poi anche dei supermercati che mettono a disposizione un elenco dettagliato di quello che mettono in vendita facendoci risparmiare tempo nell’affannosa ricerca tra gli scaffali del prodotto che ci serve.
Se non facciamo in tempo a fare una ricerca preliminare e andiamo a fare la spesa alla cieca, ecco a nostra disposizione le “app” da utilizzare direttamente al momento dell’acquisto. Basta appoggiare il nostro telefonino al codice a barre presente nell’etichetta degli alimenti ed ecco che scopriamo i misteri di quel prodotto. Di “app” però ce ne sono molte e ognuna è “tarata” per individuare precise caratteristiche come, ad esempio, la presenza di un allergene.
Oltre a quelle veramente utili, come quelle utilizzate dalle persone affette da celiachia per individuare i cibi contenenti glutine, ci sono le “app” generalistiche. Queste ultime pretendono di darci informazioni salutistiche molto dettagliate e ci indicano quali sono (secondo loro) i cibi più sicuri da acquistare invitandoci a evitare gli altri.
La differenziazione tra cibo “buono” e cibo “cattivo” è molto utile per i prodotti a marchio della GDO che può “indirizzare” i consumatori a scelte favorevoli per determinati produttori e distributori a svantaggio di altri.
Probabilmente gli ideatori di molte “app” non sono proprio dei samaritani, ma lavorano al servizio di importanti gruppi del settore alimentare e non certo a favore dei consumatori.
Forse rimanere ancorati alla nostra tradizione alimentare e acquistare quello che più ci piace rifuggendo da consigli un po’ troppo interessati è la cosa più saggia da fare.
Per rispondere alla domanda del titolo si può dire che delle “app” si può fare tranquillamente a meno.
Comunque buon APP-etito.
* A cura di Andrea Ghiselli e Agostino Macrì