La disciplina sulla produzione di alimenti biologici è molto complessa ed è basata su una regolamentazione comunitaria che, sostanzialmente, definisce come “biologico” (organic in inglese) un alimento ottenuto da animali o piante che vivono in un ambiente “naturale” senza l’utilizzazione di sostanze chimiche di sostegno come farmaci veterinari, concimi, pesticidi, ecc. .
Un altro requisito richiesto ai produttori di alimenti biologici è quello di certificare il processo di produzione attraverso l’assistenza di enti certificatori, esterni alle aziende, che debbono controllare sia le modalità di produzione con ispezioni dirette, che l’assenza di residui indesiderati di sostanze chimiche nel prodotto destinato al consumo. Visitando gli scaffali dei prodotti biologici nei negozi specializzati o nei supermercati, è facile imbattersi in verdure come pomodori, zucchine, peperoni, provenienti magari da aree geografiche che, in certi periodi, superano di poco gli zero gradi di temperatura. Come dovrebbe essere ampiamente noto questi prodotti maturano naturalmente soltanto nei periodi caldi estivi e quindi è difficile sostenerne la “biologicità”. E’ invece certo che vengono coltivati in serre in condizioni climatiche artificiali e controllate in modo tale da evitare l’attacco di parassiti vegetali ed animali per cui non è necessario alcun sistema di lotta chimica.
Le stesse verdure, sempre in quei determinati periodi, sono disponibili “normali” e prodotte ovviamente anch’esse in serre con le stesse tecnologie dei citati prodotti biologici e con analoghe garanzie di sicurezza. L’unica differenza è che i prodotti “normali” non sono certificati. Ma è una differenza che si nota alla cassa dove i prodotti biologici hanno un costo molto superiore a quelli “normali” (in alcuni casi è addirittura il doppio).
Esistono ovviamente anche produzioni biologiche animali ottenute in condizioni ambientali naturali in cui il ricorso alla chimica è assolutamente precluso. Tuttavia, non bisogna dimenticare che il principale problema di tutti gli allevamenti è rappresentato dalle malattie infettive degli animali e che alcune di queste malattie possono trasmettersi anche all’uomo. Negli allevamenti industriali gli animali sono tenuti sotto un rigido controllo sanitario mediante trattamenti vaccinali e, se necessario, interventi terapeutici con farmaci specifici sotto un rigoroso controllo veterinario. Negli allevamenti biologici, invece, salvo deroghe particolari, è possibile ricorrere soltanto a prodotti omeopatici o ad altre terapie alternative delle quali nessuno ha dimostrato l’efficacia nella prevenzione di malattie quali la salmonellosi, la brucellosi, l’idatitosi o la tubercolosi, tanto per citare qualche zoonosi.
La conseguenza è che, almeno per gli alimenti di origine animale, in quelli provenienti dagli allevamenti industriali esiste la possibilità della presenza di “residui”, ma soltanto nei limiti che sono imposti dalla vigente normativa che sono di sicurezza assoluta e, ovviamente, il pericolo delle zoonosi è del tutto inesistente. Nel caso di quelli biologici, invece, non c’è nessuna possibilità di presenza di “residui”, ma non sempre può essere garantita la sicurezza “microbiologica”.
Anche in questo caso le carni, il latte, le uova o il miele biologici hanno un prezzo maggiore di quelli prodotti industrialmente e ciò è ovviamente giustificato dai costi di produzione molto più elevati, dal pagamento degli enti di certificazione ed anche dalle minori rese produttive degli animali biologici che non usufruiscono delle agevolazioni apportate dalle varie tecniche innovative dell’allevamento industriale.
E’ bene chiarire che il rispetto delle norme previste per la produzione agricola e zootecnica, garantisce i consumatori da pericoli significativi, sia che si tratti di produzioni convenzionali che biologiche e non è assolutamente ammissibile affermare che le une siano più sicure dalle altre. I veri problemi sono invece legati al mancato rispetto delle leggi come, ad esempio, l’utilizzazione di sostanze chimiche non consentite sia sugli animali da allevamento (ormoni, alcuni antibiotici, ecc.) che nelle coltivazioni agricole (ormoni, pesticidi clorurati, ecc.). Il fenomeno dell’illegalità può riguardare sia le produzioni industriali che quelle biologiche, ma normalmente tutti i produttori seri fanno molta attenzione ad evitare dei problemi.
Dal punto di vista della sicurezza, quindi, il consumatore può scegliere tra l’alimento biologico e quello industriale che trova in commercio, senza alcuna preoccupazione di correre rischi particolari, rendendosi comunque conto che l’alimento autenticamente biologico può avere delle caratteristiche organolettiche diverse a quelle degli alimenti prodotti in modo tradizionale. Certo non ci si possono aspettare grandi differenze tra le produzioni biologiche di serra e quelle industriali.
E’ pertanto necessario chiarire in modo netto che l’acquisto di un prodotto biologico serve a soddisfare soltanto il palato e, fatto assolutamente non trascurabile, sostenere le nostre piccole produzioni agricole di qualità; sarebbe però necessario che i costi degli alimenti biologici cominciassero ad essere competitivi con gli altri e fare in modo che la misera quota (circa lo 0.5 % del totale) del consumo alimentare che essi rappresentano si alzi in modo significativo. Per ottenere questo risultato bisogna consentire di abbassare i costi di produzione ed anche quelli di certificazione: è auspicabile che questi controlli siano svolti dalle strutture pubbliche a titolo scarsamente oneroso, piuttosto che affidato a strutture private.
In termini più generali, un approccio più ragionevole ai problemi della sicurezza alimentare potrebbe mitigare alcuni atteggiamenti di assoluto terrore da parte dei consumatori ed anche debellare l’ortoressia che si sta facendo strada a scapito di molti e nell’interesse di alcuni scaltri e capaci gestori del biologico che probabilmente campi e stalle li hanno visti soltanto in fotografia.
Roma, 13 gennaio 2012