Attestazioni, marchi e bollini sui prodotti alimentari sono diventati per il consumatore un rebus, ce ne sono migliaia e le richieste di informazioni sono all’ordine del giorno, quasi sempre per sapere che cosa significano e se sono credibili. La confusione è piuttosto diffusa e innanzitutto bisogna distinguere tra attestazioni e marchi disciplinati da norme europee o nazionali e altri che non lo sono.
I primi sono i seguenti:
- Prodotti a denominazione d’origine controllata (DOC), che sono soltanto i vini. Sostanzialmente il consumatore ha una garanzia di legge sulla provenienza e sui tipi di uva impiegati oltre che sulle caratteristiche e sui metodi di lavorazione per ottenere il vino. Quindi sa che il vino proviene da una determinata zona o addirittura da una determinata vigna e che c’è un sistema di controllo da parte di un consorzio autorizzato e vigilato dal ministero delle Politiche Agricole. Una sottocategoria sono i vini IGT (indicazione geografica tipica), che provengono da una zona più ampia. Non è assolutamente detto che un vino DOC o IGT sia migliore di un semplice vino da tavola che non ha un disciplinare di produzione e non può dichiarare neanche l’anno di vendemmia, tanto è vero che ci sono vini da tavola che costano assai più di molti vini DOC e sono più famosi. La differenza sta però nel fatto che il semplice vino da tavola è garantito solo da chi lo produce o lo imbottiglia, comprandolo eventualmente da terzi.
- Prodotti a denominazione d’origine protetta (DOP), che sono tutti quelli diversi dai vini. Sostanzialmente è l’equivalente europeo dei DOC, poiché il marchio è assegnato dalla Commissione UE. Per ottenerlo bisogna dimostrare che la particolare qualità e le caratteristiche del prodotto sono dovute esclusivamente a una circoscritta e ben delimitata zona di produzione. Anche in questo caso il consumatore ha una garanzia di legge sull’origine del prodotto e su un sistema di controllo.
- Prodotti a indicazione geografica protetta (IGP), che è una qualifica europea più accessibile dei DOP in quanto per ottenerla basta una sola caratteristica di distinzione. Per esempio, la qualità del prodotto potrebbe derivare dalla zona in cui è lavorato, ma la materia prima usata potrebbe venire anche dall’estero. Sarebbe stato meglio evitare questo marchio, che genera confusione nel consumatore, il quale non conosce neanche la differenza con la DOP.
- Prodotti con attestazione di specificità, contraddistinti dalla menzione “specialità tradizionale garantita” (STG), che è un marchio concesso sempre dalla Commissione UE in relazione ad alcune caratteristiche specifiche del prodotto, che lo distinguono nettamente dai prodotti analoghi appartenenti alla stessa categoria, senza alcun riferimento a una zona di produzione. Anche questi prodotti hanno un disciplinare di produzione, ma la differenza con quelli DOP e IGP è che possono essere fabbricati ovunque in Europa purché si rispetti il disciplinare. Specialità tradizionale garantita potrebbe essere, ad esempio, il panettone, un liquore di erbe o anche una mozzarella di latte di vacca, purché le particolari caratteristiche siano dovute alla composizione qualitativa, a metodi di lavorazione tradizionali, alla freschezza della materia prima, eccetera. Dal punto di vista del consumatore questo marchio è utile perché consente di fare una scelta consapevole. Vi sono molti prodotti che non sono sottoposti ad alcuna disciplina normativa per quanto riguarda gli ingredienti o i metodi di lavorazione. Si pensi a un liquore che può essere fatto con acqua, alcol, zucchero e aromi o allo stesso panettone nel quale si possono usare indifferentemente burro e uova oppure i grassi idrogenati e neanche un uovo: il marchio consentirebbe di distinguere immediatamente quello fatto in modo tradizionale, anche per quanto riguarda i metodi di lavorazione (per esempio, i tempi di lievitazione), che non sono indicati in etichetta.
- Prodotti biologici. Anche in questo caso si tratta di una garanzia di legge, in quanto sono disciplinati da norme comunitarie e nazionali, c’è un sistema di controllo e il marchio garantisce determinati sistemi di coltivazione o di allevamento e un uso limitato di sostanze per combattere i parassiti o le malattie. Il consumatore ha la ragionevole certezza di comprare un alimento che si avvicina di più alla tradizione e alla genuinità e quindi fa una scelta consapevole. C’è da fare tuttavia una distinzione con i prodotti biologici provenienti dai Paesi terzi per i quali, a parere dell’Unione Nazionale Consumatori, il sistema di controllo non è altrettanto affidabile.
Fin qui i marchi collettivi che sono disciplinati in via normativa. Comprando un prosciutto DOP, per esempio, il consumatore ha la garanzia di legge che è stato ricavato da un suino allevato in Italia e adatto a fare prosciutti, che è stata usata una coscia fresca e non congelata, che questa coscia è stata lavorata in un determinato modo previsto dal disciplinare, che è stata stagionata per un sufficiente numero di mesi senza ventilazione calda forzata, che durante la stagionatura è stata controllata ripetutamente e che, infine, prima di essere immesso in commercio il prosciutto è stato sottoposto ad un esame per verificare che abbia le caratteristiche dovute. Tutte queste garanzie non sono date da un prosciutto che non è DOP, per il quale il consumatore può fare affidamento soltanto sul buon nome del produttore, ammesso che lo conosca.
Vi sono poi marchi collettivi che non sono disciplinati da norme comunitarie o nazionali e sono un’infinità, alcuni senza riferimento alla qualità o provenienza del prodotto, come quelli di carattere umanitario o ecologico (per esempio, il marchio che garantisce il non sfruttamento dei lavoratori nel terzo mondo o quello di rispetto della vita dei delfini riportato sulle scatole di tonno). Tutti questi marchi collettivi si possono dividere in tre categorie: quelli promossi con norme regionali, quelli che hanno un disciplinare volontario e quelli che non lo hanno. I primi riguardano ovviamente i prodotti regionali, più che altro per quanto riguarda la provenienza, ma per il consumatore sono utili perché spesso la provenienza è importante anche per quanto riguarda la qualità e, inoltre, le norme nazionali sull’etichettatura alimentare non prevedono l’obbligo di indicare la provenienza del prodotto tranne “nel caso in cui l’omissione posa indurre in errore l’acquirente”, che è una regola talmente vaga e generica da essere facilmente ignorata da tutti. Si pensi poi all’utilità di conoscere la provenienza in caso di allarmi alimentari come quelli che si sono succeduti con una certa ricorrenza. Quando è scoppiato il caso dei polli alla diossina belgi, i consumatori dovevano arrabattarsi ad analizzare il bollo sanitario o il bollo CE per vedere se c’era la lettera “I” dell’Italia o la “B” del Belgio. Ma poi neanche questo dava la garanzia della provenienza al 100%, poiché il pollo poteva essere stato benissimo importato dal Belgio e macellato in Italia, meritando così la lettera “I”. Quindi i marchi regionali di provenienza sono utili, purché ci sia un affidabile sistema di controllo. Dei marchi collettivi basati su un disciplinare volontario non regolato in alcun modo in via normativa, si può dire che fanno fede fino a prova contraria, ma bisogna anche fare qualche distinzione. Ci sono, per esempio, quelli che emulano i prodotti biologici e certificano un sistema di coltivazione o di allevamento di tipo organico, tradizionale, eccetera, generando confusione nei consumatori, molti dei quali pensano che si tratti dei prodotti biologici, mentre invece sono soggetti a un sistema di controllo volontario. Altri marchi collettivi identificano prodotti ottenuti sempre in modo tradizionale, per esempio i formaggi fatti esclusivamente con latte di animali che pascolano all’aperto, ma non creano confusione con i biologici e qui potrebbe valere la regola che fanno fede fino a prova contraria. Infine ci sono i marchi collettivi che identificano un prodotto preciso, per esempio un certo tipo di mela o di arancia: non c’è niente da obiettare, anche perché una frode ai danni del consumatore sarebbe difficile e non avrebbe senso. Concludendo, i marchi collettivi, con le distinzioni dette, sono utili, perché il consumatore, almeno quello italiano, giudica con una certa ostilità l’invadente globalizzazione alimentare. Inoltre, si fa sempre più esigente e non si accontenta più delle avare informazioni legali in etichetta. Basti pensare che, secondo le norme comunitarie sull’etichettatura, una ditta potrebbe importare un prodotto già inscatolato da un Paese del terzo mondo e metterci la propria etichetta senza far sapere da dove viene. Il marchio collettivo rimedia, fra l’altro, a questa lacuna normativa e, per così dire, tranquillizza il consumatore su diversi altri aspetti riguardanti la materia prima e i sistemi di produzione.Roma, 14 febbraio 2009